Psalterium cum glossis (sec. XII)
In questa immagine vediamo la prima carta di un’opera simile a quella che Adelmo stava copiando al momento della morte, cioè un salterio. Si tratta di un manoscritto più antico - risale infatti al XII secolo - e l’unica miniatura che vi si trova è il capolettera con cui inizia il testo.
L’opera è integralmente leggibile online.
Va da sé che un manoscritto è un oggetto unico. Anche quando riportano lo stesso testo, due manoscritti non saranno mai uguali l’uno all’altro. Luciano Canfora nel volume Il copista come autore porta all’estremo questo concetto:
«A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a sopravvivere. Così fu fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi.
Il copista è colui che materialmente scrive il testo. Le parole che lo compongono prima sono passate attraverso il filtro, e il vaglio, della sua testa, poi sono state messe in salvo grazie alla destrezza della mano nel tener dietro alla dettatura interiore. [...]
Come la traduzione riempie i “vuoti” del testo [...], così il copista integra, credendo di perfezionarlo, un testo in cui si è perfettamente identificato: appunto perché copista» (p. 21, 23).
L’atto della copiatura - che è «la forma più alta e profonda» di lettura (ivi, p. 25) - porta alla piena appropriazione di un testo. In fondo anche tutta la vicenda del nostro romanzo ruota intorno alla riflessione fra il valore della copiatura di testi altrui e quello della produzione di nuove opere. I monaci dell’abbazia tengono in grande importanza il proprio lavoro di trasmissione della cultura, ma difficilmente possono sentirsi autori di un’opera, come invece rileva Canfora. Così riflette Adso durante una visita nello scriptorium al terzo giorno di permanenza nell’abbazia:
«L’abbazia in cui mi trovavo era forse ancora l’ultima a vantare un’eccellenza nella produzione e riproduzione della sapienza. Ma forse proprio per questo i suoi monaci non si appagavano più nell’opera santa della copia, volevano anch’essi produrre nuovi complementi della natura, spinti dalla cupidità di cose nuove» (p. 187).
Ma se seguiamo l’interpretazione offerta da Canfora, l’atto di riscrittura materiale di un testo diventa anche un momento di reinterpretazione del testo stesso. Se questo si manifesta in maniera eclatante nelle miniature che, come nel salterio di Adelmo, riempiono gli spazi della pagina non occupati dalle parole - proprio dall’osservazione di queste figure scaturisce la prima conversazione fra Guglielmo e Jorge sul comico e sul riso (p. 84-91) - anche i segni più quotidiani e meno notevoli che il copista lascia sul manoscritto contribuiscono a renderlo un oggetto unico e diverso da tutti gli altri. Eco dedica attenzione alle condizioni fisiche e materiali del lavoro di copiatura, in particolare quando il romanzo torna nello scriptorium per la seconda volta (siamo nel secondo giorno, all’ora terza, p. 134 e sgg.). Dopo avere descritto la disposizione dei tavoli - studiata in modo da sfruttare al meglio la luce e il calore, con postazioni di lavoro più o meno comode che i copisti si contendono - l’autore cita le tracce che questi uomini dediti alla trasmissione del sapere lasciano sull’opera per ricordare il proprio lavoro:
«E questo spiega perché sovente troviamo in margine ai manoscritti frasi lasciate dallo scriba come testimonianza di sofferenza (e di insofferenza) quali “Grazie a Dio presto si fa buio”, oppure “Oh se avessi un bel bicchiere di vino!”, o ancora “Oggi fa freddo, la luce è tenue, questo vello è peloso, qualcosa non va”. Come dice un antico proverbio, tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora» (p. 135).
Anche in un manoscritto che non presenta eleganti miniature si può quindi percepire la presenza del copista, la materialità del suo lavoro, capace di creare un oggetto che è unico e irripetibile sia nel contenuto che nella sua materialità.
[Psalterium cum glossis] (sec. XII).
Collocazione: Ms. A.27