Proprio la risoluzione dell’«enigma del labirinto» (p. 213) è parte decisiva nella comprensione della trama delittuosa, tanto che il labirinto diventa simbolo della ricerca della verità, sul piano terreno come su quello spirituale:
«“Così nessuno, salvo due persone, entra all’ultimo piano dell’Edificio...”
L’Abate sorrise: “Nessuno deve. Nessuno può. Nessuno, volendolo, ci riuscirebbe. La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodice. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire. E ciò detto, vorrei che vi adeguaste alle regole dell’abbazia”» (p. 46).
Eco introduce nella narrazione molti degli oggetti di studio di cui si è occupato negli anni precedenti o che affronterà nel prosieguo della propria carriera di studioso. Il diffondersi del modello del labirinto - anzi di vari tipi di labirinto - nella rappresentazione, sia grafica che concettuale, dell’organizzazione delle varie discipline e più in generale della cultura - è infatti da lui indagato nel primo capitolo del volume Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazone.
A fianco la mappa disegnata da Adso (p. 323) come risulta dalle esplorazioni noturne e segrete della biblioteca, che però si rivelano fruttuose solo dopo che l’osservazione dell’edificio dall’esterno ha permesso a Guglielmo di comprenderne la struttura.
Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980.
Collocazione: CAGLI F. 140